Il Cifrario Beale: l’Enigma ottocentesco da 1 Milione di Dollari – Vanilla Magazine

2023-02-22 18:46:01 By : Ms. Sarah Shi

Era il marzo del 1818. Un gruppo di avventurieri stava dando la caccia a una mandria di bisonti quando il tramonto li costrinse ad accamparsi in un piccolo burrone a circa 300 miglia a nord di Santa Fe, nel nuovo Messico. Accesero il fuoco e si prepararono ad affrontare la notte, ma uno di loro notò un luccichio e prese una torcia per analizzare le rocce che lo circondavano.

Aveva trovato un giacimento d’oro

Nel 1885 la Virginian Job Print di Lynchburg stampò un opuscolo intitolato The Beale Papers, venduto alla non modica cifra di 50 centesimi dell’epoca, circa 14 dollari di oggi. Il prezzo era molto alto, ma, in un certo senso, valeva la candela, perché al suo interno vi era la storia di un tesoro ricchissimo: parliamo di 3 tonnellate d’oro e d’argento dal valore complessivo di 220.000 dollari dell’Ottocento. Il vero autore dell’opuscolo, che, per questione di comodità, d’ora in avanti chiameremo “lo scrittore”, scelse l’anonimato e delegò il compito della pubblicazione a un suo amico, per evitare che le persone lo contattassero in cerca di risposte. Il motivo è facile da intuire: il Beale Papers conteneva un intricato mistero crittografico, tramandato di persona in persona per quasi cent’anni. Al centro della vicenda vi era un’ingente fortuna che chiunque poteva trovare, a patto di decifrare i messaggi dell’avventuriero Thomas Beale.

Prima di iniziare, è bene specificare che l’opuscolo in questione è l’unica fonte del Cifrario Beale, e la sua narrazione abbraccia ogni evento legato al tesoro e a coloro che ne furono coinvolti. Comprende la narrazione in prima persona dell’autore, una lettera che Morriss gli spedì con i dettagli della storia di Beale e tutti i documenti presenti nella fantomatica scatola di ferro.

Il signor Robert Morriss nacque nel Maryland nel 1778 e, in tenera età, si trasferì con la famiglia nella contea di Loudoun, in Virginia. Nel 1803 sposò Sarah Mitchell, prese in gestione il Washington Hotel di Lynchburg e divenne un oste molto popolare, apprezzato da tutti per la sua cordialità.

A gennaio del 1820 accolse sotto il suo tetto un nuovo ospite, un uomo alto un metro e ottanta, dai capelli e gli occhi scuri e dalla carnagione molto abbronzata. Si chiamava Thomas Jefferson Beale ed era in compagnia di due amici. Dopo circa una settimana questi ripartirono senza Beale, che, grazie al suo carisma, divenne molto popolare in paese. Fra una chiacchierata e l’altra fece amicizia con Morriss e gli confidò che sarebbe rimasto per tutto l’inverno. Quando, a marzo, i suoi due amici tornarono, Beale fece i bagagli e si rimise in viaggio. Morriss lo rivide solo a gennaio del 1822.

Beale ricomparve dal nulla e si fermò fino a primavera, ma, poco prima di salutare l’oste, gli affidò una scatola di ferro chiusa a chiave, che, a suo dire, conteneva qualcosa di molto prezioso. Si fidava ciecamente di Morriss e la sua fama lo precedeva. Tutti gli abitanti della città lo consideravano un uomo onesto, un uomo dai sani principi morali. Beale non gli fornì alcuna spiegazione, ma promise che, a tempo debito, gli avrebbe spedito una lettera esaustiva. L’enigmatico avventuriero ripartì e il 9 maggio gli fece recapitare un messaggio da Saint Louis, nel Missouri.

“Rimarrò qui una settimana o dieci giorni […] a cacciare i bufali e incontrare i selvaggi grizzly. Non posso determinare per quanto tempo sarò assente, certamente non meno di due anni. […] Se nessuno di noi dovesse mai tornare, vi prego di conservare accuratamente la scatola per un periodo di dieci anni dalla data di questa lettera, e se io, o nessuno da me autorizzato, durante quel periodo la reclameremo, la aprirai. […] Troverai […] documenti che ti risulteranno incomprensibili senza l’ausilio di una chiave che ti assista. Una tale chiave l’ho lasciata nelle mani di un amico di questo luogo, sigillata, indirizzata a te e approvata per non essere consegnata prima del giugno del 1832. […] Qualunque sia il risultato, il gioco vale la candela e lo giocheremo fino alla fine”.

Il mistero s’infittì. Beale era un avventuriero, che con il suo gruppo andava a caccia di nuove esperienze, e Morriss non riusciva a immaginare cosa ci fosse nella scatola, ma vi anticipo che la lettera con la chiave per decriptarne il contenuto non arrivò mai. L’oste attese il ritorno dell’amico. Aveva detto che sarebbe stato via almeno due anni, ma durante tutto il 1824 non ricomparve. A quei tempi i giornali statunitensi erano pieni di notizie di massacri perpetrati dagli indiani e l’uomo ipotizzò il peggio, ma il nome di Beale non figurava su nessun bollettino. Giunse il fatidico 1832 e Morriss tergiversò. Era titubante ad aprire la scatola e, in cuor suo, sperava ancora in un improvviso ritorno di Beale. Si decise solo nel 1845, quando pagò un fabbro per rompere la serratura e si ritrovò fra le mani tre fogli pieni di numeri e due lettere intestate a lui.

Queste ultime, Beale le aveva scritte proprio nel suo hotel il 4 e il 5 gennaio del 1822 e, per la prima volta, ne chiarivano il misterioso passato.

Nel 1817 Thomas Beale riunì un gruppo di ventinove persone che, come lui, desideravano vivere all’aria aperta per un po’ e avventurarsi nella natura. Dalla Virginia, forse sua terra d’origine, si recò a Saint Louis, poi nelle grandi pianure dell’Ovest per cacciare bufali e grizzly. Il 19 maggio di quell’anno il gruppo intraprese un viaggio di due anni in direzione Santa Fe. Vi arrivarono nell’autunno del 1818 e vi trascorsero l’intero inverno, ma l’esperienza non sembrò appagarli. Per smuovere la monotonia, agli inizio di marzo del 1819, alcuni suoi compagni si allontanarono dall’accampamento per una gita in solitaria di qualche giorno. Tornarono dopo diverse settimane e raccontarono a Beale e agli altri di aver trovato un grandissimo giacimento d’oro.

Gli avventurieri trascorsero i successivi diciotto mesi a estrarre tutti i metalli preziosi della loro incredibile scoperta, ma, già nell’estate di quell’anno, divenne di vitale importanza la necessità di un nascondiglio. Avevano accumulato così tante ricchezze che non potevano tenerle alla luce del giorno e optarono per una caverna nella contea di Bedford, in Virginia. Beale si recò lì per un sopralluogo, ma notò che i contadini erano assidui frequentatori della zona, perciò decise per un nuovo sito. Il loro era un gruppo unito e, mentre lui si occupava del trasferimento del tesoro, i compagni continuavano con l’estrazione. Gli incidenti erano dietro l’angolo e serviva un uomo di fiducia che fosse al corrente di tutto. In quel periodo Beale conobbe Morriss e ne apprezzò le qualità umane durante il suo primo soggiorno al Washington Hotel. Quando si ricongiunse con i compagni, lo propose per il compito di custode e tornò indietro per consegnargli la fantomatica scatola di ferro.

E ora, torniamo al 1845. Morriss lesse il contenuto delle due lettere e, oltre a scoprire le origini di Beale, ricevette precise istruzioni. Il primo foglio crittografato conteneva l’ubicazione del tesoro e tutte le indicazioni necessarie per raggiungerlo, il secondo spiegava in cosa consistesse e il terzo gli avrebbe fornito gli indirizzi e i nominativi di un parente di ciascun avventuriero del gruppo, a cui avrebbe dovuto consegnare in eredità una parte del bottino. In parole povere, doveva trovare tutte quelle ricchezze, dividerle in 31 parti, tenersi la sua percentuale e distribuire il resto ai familiari dei compagni di Beale.

A conti fatti, non si trattava, poi, di un compito troppo arduo, ma senza la chiave crittografica, promessa e mai arrivata, l’oste si ritrovò in un vicolo cieco. Morì nel 1863, due anni dopo sua moglie, ma se conosciamo questa storia, è perché tramandò il contenuto della cassetta di ferro a un uomo, colui che scrisse l’opuscolo.

Morriss e l’autore s’incontrarono per la prima volta nel 1862, quando quest’ultimo soggiornò nel suo hotel ed ebbe modo di conoscerlo. L’ormai attempato oste gli accennò in maniera molto vaga un segreto che custodiva da parecchio. In poche settimane le sue rimostranze ad approfondire l’argomento lasciarono il posto alla verità. La sua vita stava finendo e doveva passare il testimone a qualcuno: l’autore era il prescelto. Era giovane, aveva ancora molti anni davanti a sé e, in qualche modo, avrebbe avuto abbastanza tempo a disposizione per cercare di decifrare i crittogrammi del suo amico avventuriero.

Gli consegnò la scatola e gli raccontò tutta la storia fin nei minimi dettagli attraverso una lettera. La sua unica raccomandazione fu, qualora fosse riuscito a trovare il tesoro, di prendersi una metà della sua quota per sé e donare l’altra ai suoi eredi. Quanto alla parte in origine destinata ai familiari dei compagni di Beale, stando alle indicazioni del terzo foglio, non avrebbe avuto difficoltà a rintracciare qualche parente ancora in vita. In caso contrario, se nessuno avesse reclamato il denaro entro vent’anni, poteva appropriarsene. Morriss scelse di fidarsi di lui e l’autore cercò per anni una chiave che svelasse l’ubicazione del fantomatico oro di Beale.

Come scrive nell’opuscolo, ci riuscì solo in parte. Attraverso la Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti scoprì che Beale ne aveva numerato le prime 1322 parole e la prima lettera di ciascuna di esse corrispondeva a un numero del secondo documento, quello della descrizione del tesoro.

“Ho depositato nella contea di Bedford, a circa 4 miglia da Bufords, in uno scavo o in un caveau 6 piedi sottoterra, i seguenti articoli, che appartengono al gruppo di persone i cui nomi sono nell’allegato tre. Il primo deposito consiste in 1.014 libbre d’oro e 3.812 libbre d’argento, depositate nel novembre del 1819. Il secondo è stato fatto nel dicembre del 1821 e consiste in 1.907 libbre d’oro e 1.288 libbre d’argento e anche in gioielli ottenuti a Saint Louis in cambio d’argento per ridurre la fatica del trasporto, valutati 13.000 dollari. Quanto sopra è nascosto al sicuro in recipienti di ferro con coperchi sempre di ferro. La fossa è approssimativamente rivestita di pietra e gli altri recipienti sono collocati su pietra solida e sono coperti da altra pietra. Il foglio numero uno descrive l’esatta località della fossa, così non sarà complicato trovarla”.

Il primo successo incoraggiò l’autore, che credette di aver risolto l’intero enigma, ma si accorse che la chiave usata per il secondo documento non era la stessa degli altri due. Tentò invano con altri testi, ma, infine, si arrese e scrisse l’opuscolo per rendere la caccia al tesoro di pubblico dominio.

“Ho deciso di rendere pubblica l’intera questione e di trasferire dalle mie spalle la responsabilità che mi ha dato il signore Morriss. […] Per evitare la moltitudine di lettere che mi assalirebbero, […] proponendo ogni sorta di domanda e richiedendo risposte, […] ho deciso di ritirare il mio nome dalla pubblicazione. […] Il signore che ho scelto come mio agente per pubblicare e far circolare questo giornale era ben noto al signor Morriss; fu a casa sua che morì la signora Morriss. […] Ho lasciato l’intera questione alla sua unica gestione e responsabilità. Inutile dire che attenderò con molta ansia lo sviluppo del mistero”.

Nelle ultime battute, l’autore spiega di aver delegato a un suo amico il compito di diffondere la storia e, in effetti, nei registri locali si è appurato che Sarah Morriss morì in una casa di proprietà di un certo James Beverly Ward.

Da questo momento in poi hai inizio il dibattito sull’autenticità del Cifrario Beale.

Negli anni la vicenda ha goduto di una certa attenzione e i più grandi esperti crittografici si sono arrovellati sui due documenti ancora irrisolti. Come chiave si è provato con altri testi storici, come la Magna Carta, svariati libri della Bibbia, la Costituzione degli Stati Uniti e, addirittura, le opere di Shakespeare. Nessun riscontro. Per qualcuno il problema sta a monte.

Chi ci assicura che Beale non abbia usato come chiave un documento scritto da lui stesso?

Senza la fantomatica lettera che avrebbe svelato l’arcano, ci è impossibile risalire al contenuto dei crittogrammi, che, in teoria, potrebbero coinvolgere anche testi non in lingua inglese. Non è da escludere nemmeno che, dopo un’eventuale decriptazione, il testo si riveli una semplice presa in giro. Se da un lato gli esperti del settore hanno provato a venire a capo della vicenda con la teoria, dall’altro, numerosi cacciatori di tesori si sono avventurati nella contea di Bedford per trovare le ricchezze di Beale con la pratica. In più di cent’anni si è cercato in lungo e in largo senza alcuna autorizzazione, talvolta, violando le proprietà private. Ma la febbre dell’oro di Beale annovera anche episodi quasi recenti. Un caso eclatante risale agli anni ’80: il proprietario di un appezzamento della contea autorizzò dei cacciatori a scavare nel suo terreno, a patto di un’equa spartizione del bottino. L’oro non saltò fuori, ma, ironia della sorte, furono rinvenuti alcuni manufatti risalenti alla Guerra Civile, poi venduti.

Inoltre, fra i vari studiosi della vicenda ci furono Clayton e George Hart, che iniziarono a indagare sul Cifrario nel 1898. Il 1° gennaio del 1952 misero tutto su carta nell’Hart Papers, un documento oggi conservato in una biblioteca di Roanoke, in Virginia. I due fratelli trascorsero circa mezzo secolo a interrogarsi sui documenti non decriptati e si avvalsero anche dell’aiuto di una sensitiva. Raccontano che riuscirono a rintracciare Ward, ormai in età avanzata, e lo interrogarono sull’opuscolo. Le copie di quest’ultimo erano andate quasi del tutto perdute a causa di un incendio scoppiato nella Virginian Job Print e l’uomo gliene fornì una che aveva ancora con sé. Confermò l’intera vicenda, ma Clayton e George ebbero la sensazione che, in realtà, fosse lui il vero autore del testo e non un suo presunto amico. Che fine abbiano fatto la scatola e i documenti originali nessuno lo sa.

La domanda che sorge spontanea è:

 Il Cifrario Beale è una bufala?

È un pensiero che hanno condiviso in molti nel corso degli anni. In prima istanza, i protagonisti della vicenda sono tutte persone misteriose, di cui si sa ben poco. Robert Morriss è realmente esistito, ma i registri di Lynchburg lo indicano a capo del Washington Hotel solo a partire dal 1823, data che differisce da quella fornita dall’opuscolo, ovvero il 1820. Al contrario, escludendo la teoria sopracitata dei fratelli Hart, dell’autore dell’opuscolo non si sa nemmeno il nome.

La figura maggiormente avvolta nel mistero, però, è quella di Thomas Jefferson Beale. Dalle indagini condotte attraverso i registri dei censimenti statunitensi si è appurato che nel 1810 vi erano solo due persone con quel nome e vivevano nel Connecticut e nel New Hampshire. Nel 1820, invece, troviamo un capitano dell’esercito, ma noto solo come Thomas Beale, e un uomo della Virginia, Thomas K. Beale. È bene sottolineare, però, che, per motivi logistici, lo studio dei censimenti non può fornire risposte esaustive. All’epoca mancavano all’appello alcuni stati e alcune contee; inoltre, fino al 1850, negli elenchi comparivano solo i capofamiglia, senza i nomi di chi viveva con loro. Un’altra curiosità è che Beale inviò la sua ultima lettera a Morriss da Saint Louis nel 1822 e nei registri postali della città compare un certo Thomas Beall, ma solo nel 1820.

Di contorno ci sono, poi, tutta una serie di tesi che confutano l’attendibilità della vicenda.

Perché Beale ha usato due o tre chiavi differenti per i documenti crittografati?

Razionalmente parlando, sarebbe una premura un po’ troppo forzata: in teoria, ne bastava una. In seconda istanza, il terzo crittogramma appare troppo breve per contenere nomi e informazioni di almeno trenta persone. Pensandoci bene, l’unico a nostra disposizione è, in realtà, quello più inutile. Si tratta di una coincidenza o di una cosa voluta? Il dubbio è più che comprensibile e l’opuscolo potrebbe essere anche una semplice trovata letteraria. La storia ha ben tre voci narranti, quella dell’autore e, attraverso le loro lettere, quelle di Morriss e Beale; inoltre, c’è una trama che si sviluppa attraverso una sorta di tecnica del racconto a cerniera. Sull’onda di questa corrente di pensiero, nell’Ottocento si ipotizzò che il vero autore del Beale Papers fosse Edgar Allan Poe, la cui passione per la crittografia era nota. Tale credenza non ha subito alcuna smentita fino agli anni ’80 del Novecento, quando degli esami sulle strutture grammaticali dell’opuscolo e degli scritti di Poe hanno stabilito che non vi è alcuna somiglianza di stile.

Dopo oltre due secoli i segreti del Cifrario Beale sono ancora lì, celati in una serie di numeri. Verità, bufala o leggenda, nessuno ha la risposta a questo grande mistero dell’Ottocento, che, in teoria, vale almeno un milione di dollari.

Laureato in Lettere Moderne all'Università degli studi di Salerno. Sono uno scrittore e un grande appassionato di letteratura, cinema e storia. Ho pubblicato un romanzo di narrativa, “Lo scrittore solitario”, e un saggio, “Woody Allen: un sadico commediografo”, entrambi acquistabili su Amazon. Gestisco la pagina Instagram @lo_scrittore_solitario_ dove pubblico post, curiosità su film e libri e ogni giorno carico un quiz sulla letteratura.

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