Gaspare Mutolo, l'intervista esclusiva: 1) Contro la mafia metto la mia faccia | Oggi

2023-02-22 18:23:13 By : Mr. Volin Huang

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Per la prima volta a viso scoperto, parla il pentito che sfidato Totò Riina. Una lunghissima intervista in due puntate, solo su Oggi. Qui di seguito la prima parte: la seconda sarà in edicola dal 21 aprile

Non è stata un’imbeccata del fotografo. L’idea è tutta di Gaspare Mutolo: coprirsi il volto per l’ultima volta con la maschera bianca da carnevale veneziano che ha indossato in tanti interrogatori in aula e in altre occasioni pubbliche per nascondere la sua identità di collaboratore di giustizia. E poi togliersela per farla a pezzi. Un rito di iniziazione – foto esclusive | video esclusivo

DAL 1973 – Come quando nel 1973 è entrato in Cosa Nostra, palleggiandosi da una mano all’altra una santina in fiamme. Con il rito della maschera, Mutolo ha festeggiato l’affiliazione al mondo degli uomini liberi. Lo scorso 7 aprile, dopo oltre 30 anni, l’ex autista di Totò Riina, l’ex killer-estorsore-rapitore di Cosa Nostra, l’ex trafficante di droga, dal 1992 uno dei più importanti collaboratori di giustizia, certificato da Falcone e Borsellino, è uscito dal Programma di protezione. A 82 anni, “Asparinu” è un uomo libero a tutti gli effetti, anche se continuerà a vivere sotto falso nome, in un domicilio segreto. Mutolo non è stato un boss o un colletto bianco della mafia. È stato un feroce manovale di Cosa Nostra. Infatti non ha semplicemente strappato la maschera bianca, l’ha strangolata, dilaniata con una forza violenta sopravvissuta in fondo a dita forti e nodose, dita che oggi sanno impugnare un pennello con la delicatezza che si riserva ai fiori.

LE STRAGI DEL ’92 – Il 1992, anno di stragi, è stata una cannonata che gli ha spaccato la vita in due, come al Visconte Dimezzato di Calvino: da una parte il Male, dall’altra il Bene; da una parte il killer di Partanna Mondello, autore di una ventina di omicidi, dall’altra il pentito-pittore che dipinge i tratti dei rapporti tra lo Stato e la Mafia. Per la parte finale della sua seconda vita, Asparinu ha un piano preciso: «Tornare a Palermo, un giorno, per parlare alle donne di mafia, alle mogli, alle figlie, affinché convincano i loro uomini a cambiare strada, perché la mafia è morte, ti impedisce di vivere da uomo e di apprezzare le cose belle. Negli anni che mi restano, voglio scontare con la sofferenza il male che ho fatto e lasciare qualcosa di utile, attraverso le parole e i quadri». Noi siamo stati i primi a guardarlo in faccia dopo 30 anni, durante un’intervista. Abbiamo intuito la gioia di un passo che comporta anche dei rischi, ma per comprendere fino in fondo la luce nuova negli occhi di un uomo libero, bisognerebbe schiacciarsi sul volto quella maschera bianca per 30 anni.

Questa è la storia di Gaspare Mutolo, così come ce l’ha raccontata a casa sua, un appartamento modesto, dalle pareti interamente ricoperte dai quadri che ha dipinto. Tra le tele, dominate da colori forti, la foto incorniciata del Cristo Velato di Giuseppe Sanmartino. Il cavalletto da pittore accanto al letto, che fa parte del soggiorno. Su un tavolino, un Bambin Gesù in una culla impagliata, regalo di un amico. Sul comò foto di figli, nipoti e, soprattutto, della moglie Marò, che è scomparsa sei anni fa, ma continua a dare un senso alla vita di Gaspare Mutolo.

Mutolo, lei è nato dalla mafia? «No. Avevo degli zii mafiosi, ma mio padre Vito non lo era. Era militare in Marina, a Taranto. Finita la guerra siamo tornati a Palermo, prima in Corso dei Mille, dov’era nato mio padre, poi nel Borgo Vecchio, dov’era nata mia madre. Gli portavo da mangiare a mezzogiorno, cambiava i binari dei tram. Poi ha fatto il bigliettaio e l’autista di bus».

Sua madre? «Era una persona sensibile. Il giorno che il prete venne a dare l’estrema unzione a mia nonna, smise di mangiare. La portarono in ospedale, le fecero l’elettro-choc e la rovinarono. Finì in manicomio, mentre mia nonna visse ancora per 15 anni. Mamma uscì molti anni dopo, nel 1953, proprio quando la statua della Madonna di Siracusa si mise a lacrimare. La portarono là per chiedere la grazia. La ricordo con la camicia di forza. Eravamo due fratelli e tre sorelle. Papà lavorava e badava a noi. Ci siamo spostati a Mondello. Papà si è innamorato di un’altra donna, Pina, di Villagrazia. Forse  l’errore è stato aver generato altri sei figli».

Perché errore? «Perché Zio Piddu, il fratello di mia madre, mafioso, lo considerava una vergogna e voleva che mio padre si rimettesse con sua sorella, una ventina d’anni dopo l’uscita dal manicomio. Siamo nel 1975. Io ero già mafioso. Mio padre venne piangendo a dirmi che era stato minacciato. Chiamai Zio Piddu e gli spiegai che noi eravamo grandi e che mio padre doveva pensare a quei sei figli piccoli. A mia madre avrebbe badato mia sorella. Poi se ne occupò anche Maria, la figlia più grande di Pina, che ho aiutato a sposarsi».

In che senso? «Maria, a 15-16 anni, era fidanzata con Bartolo. Un giorno, tornando da Mondello a Partanna, scattò una foto per gioco con i suoi amici in una di quelle cabine per le fototessere. Bartolo, geloso perché nello scatto lei era vicina a un suo amico, prese la scusa per lasciarla. Mio padre venne a dirmelo in carcere e mi raccontò che Maria continuava a piangere. Gli dissi: “Ci penso io quando esco”. Uscito, minaccio il fidanzato: “Se non la sposi, ammazzo tuo padre, tua madre e poi ammazzo te”. Bartolo aveva un cugino mafioso, organizziamo un incontro nella bottega di mobili di un uomo d’onore. Chiedo a Bartolo: “Mia sorella ti ha tradito o mancato di rispetto?”. Il ragazzo risponde: “No”. Chiedo ancora: “Quando l’hai presa era signorina?”. “Sì”, ammette. Anche suo cugino conclude: “E allora sposa quella ragazza”. Solo che la mamma di Bartolo era amica del parroco, gli portava le uova e il prete si rifiutava di sposarli perché lo sposo era costretto. Poco dopo ha ricevuto la visita di un paio di persone che gli hanno tagliato la faccia. Paolo Borsellino ha emesso tre mandati di cattura per quei due e per me. Il successore del parroco li ha sposati. Oggi mio cognato Bartolo è nonno».

Che bambino è stato lei? «Avevo un gran talento per il male. Sono stato espulso in terza elementare per il calcio in uno stinco al maestro, uno di quelli antichi, che bacchettava le mani. Sono scappato e ho rotto tutti i vetri della scuola. Mio padre mi ha portato a lavorare nell’officina di Salvatore che, anni dopo, ho scoperto essere un mafioso di Paolino Bontade. Lì ho imparato a rubare le macchine. Smontavamo i pezzi di motore e li rivendevamo. All’epoca la Polizia, poverina, aveva le jeep e non riusciva a stare dietro ai bolidi che rubavo. Facevo il galletto. Ballavamo nelle case degli amici con i giradischi. È stato il periodo più felice della mia giovinezza».

Con il sogno di diventare un mafioso. Giusto? «Sono cresciuto in quel garage di via Monte Santo, una parallela di via Roma, a Palermo: c’erano l’officina, l’autolavaggio, un magazzino, la rimessa del Principe Alleato con le carrozze antiche. Quando ancora non sapevo chi fossero i mafiosi, vedevo che lì dentro, in uno stanzone, si riunivano a parlare persone diverse dalle altre, vestite bene, eleganti, che non lavoravano. Vedevo Gerlando Alberti, Giannuzzo La Licata, che Buscetta avrebbe indicato come vittima di Pippo Calò, i contrabbandieri che noleggiavano le 12 auto dell’officina per i loro trasporti. Prima  ancora di conoscere in carcere Totò Riina, io frequentavo già l’ambiente mafioso. E mi affascinava, perché vedevo quanto venivano rispettate quelle persone che mi sembravano brave. Ogni tanto ne moriva qualcuna».

Oltre a rubare le auto? «Facevamo furti nelle case nel Nord Italia. Di base stavamo a Rimini, in via Garibaldi, nella stanzetta sopra al ristorante della sorella di Michele e Salvatore Vizzini, nipoti del famoso Don Calò. Allora non esistevano le porte blindate. Facevamo finta di essere rappresentanti della Fabbri Editore e suonavamo alle case più belle. Se aprivano mostravamo gli opuscoli delle enciclopedie, altrimenti le svaligiavamo. Giravamo tutta l’Italia, al sabato rientravamo a Rimini. A Palermo invece facevamo le rapine e scassinavamo le casse di sicurezza. Non c’erano ancora le guardie giurate. Le banche avevano le porte aperte, sembrava che ci invitassero».

Il primo arresto? «Nel 1960, a 20 anni, mi mettono nel carcere minorile. Il secondo nel ’65, mi portano all’Ucciardone. Nell’ottava sezione conosco Totò Riina che mi prende subito in simpatia. Qualcuno gli racconta che vengo dal garage di via Monte Santo, che conosco già l’ambiente mafioso, ma è stato un episodio particolare a fargli cambiare atteggiamento nei miei confronti».

Quale? «Riina litiga con un bestione durante l’ora d’aria per un posto al sole. Io tiro due schiaffi al bestione e pure una testata sul naso. Mi chiudono per 12 giorni in una cella di punizione. Quando esco, Riina si attacca a me. Sono l’unico cittadino ammesso nel circolo dei paesani, i Corleonesi. Giochiamo a dama insieme, spesso lo lascio vincere. Un giorno mi chiede: “Hai mai sparato?”. Gli rispondo di no e lui ancora: “Quanto ci metti a smontare una cassettina a muro?”. Gli spiego: “A volte anche due ore, perché non bisogna fare rumore”. Mi guarda: “Chi te lo fa fare, Asparinu? Uccidere è molto più facile che rubare”. Prima di uscire dal carcere mi raccomanda: “Non fare mai niente che possa nuocere a Rosario Riccobono”. Era un modo per indirizzarmi a lui. Mi ha lasciato anche un bigliettino».

E lei è andato da Rosario Riccobono, Zu Saro, capomandamento di Partanna Mondello, la sua zona. «In realtà sono andato da suo fratello che aveva un’officina da fabbro. Dovevo tagliare una scopetta, cioè mozzare le canne e il calcio di un fucile per ridurlo a lupara e poterlo tenere sotto la giacca. Rosario spuntò da una porticina e mi fece passare in un giardino per parlarmi. Voleva eliminarmi, perché mi aveva visto al bar con dei Giacalone e a Partanna Mondello era in corso una faida tra i Giacalone e i Riccobono.Gli spiegai che erano semplicemente degli amici e gli raccontai di Riina: “Zu Saro, Riina mi ha raccomandato di non fare nulla che possa nuocervi e di portarvi i suoi saluti”. Si calmò. Mi domandò di certi furti che c’erano stati in zona, alla Coca Cola e alla Bianchi. Confermai che ero stato io. Mi chiese che cosa avessi intenzione di fare. Gli raccontai che ero appena uscito dal carcere e che ero preoccupato perché nascondevo in casa un latitante che aveva appena sparato a Sferracavallo. A casa mia passavano spesso i Carabinieri a perquisire. Riccobono mi consegnò un mazzo di chiavi: “Tieni, digli che si nasconda in questo podere”. Era la prima prova di fiducia. Qualche anno dopo mi ha combinato (ammesso, ndr) nella sua famiglia».

Con il rito classico d’iniziazione? «Sì, a Napoli, in casa di Lorenzo Nuvoletta, dove Riina era latitante. La punciuta (la puntura di un dito per farlo sanguinare, ndr) me l’ha fatta Emanuele D’Agostino, della famiglia Bontade. Mi dicevano di non lasciare spegnere l’immagine della santina finché non fosse bruciata tutta. Me la passavo da una mano all’altra per non scottarmi. Possa la mia carne bruciare come questa santina, se non terrò fede al giuramento. La prima cosa che mi dissero fu: “La mafia è più forte di quel che si pensa”. La seconda: “Il padre di un figlio che ha sbagliato con la donna di un mafioso, anche piangendo, deve strangolare il figlio”. Il fuoco, il giuramento, il rito celebrato insieme. C’era un’atmosfera speciale in quella stanza. Ero stonato dall’emozione e dalla felicità. Diventavo un mafioso. Totò Riina mi avvisò: “Ora, Gaspare, devi metterti a posto con Santina”».

Le ha ordinato il matrimonio? «Ci siamo sposati in quello stesso anno, nel 1973, nella chiesa di Pallavicino. Io ero appena uscito di galera. Ci ero entrato nel ’69, con Santina incinta, mentre preparavamo la strage di via Lazio in cui sarebbe morto Michele Cavataio, il Cobra, boss di Acquasanta. Uscito di prigione non avevo un soldo. Riina ordinò che ogni mafioso, di tutte le famiglie, mettesse 50mila lire per le mie nozze. Con quei soldi ho acquistato i mobili e arredato la casa. Riina non l’avrebbe più fatto per nessuno. Mi voleva bene».

Servitore di due padroni: Totò Riina e Saro Riccobono. «A Riina facevo soprattutto da autista. Lo portavo a Ciaculli (nelle campagne appena fuori Palermo, ndr), lui mi presentava ai grandi personaggi che incontrava e mi diceva: “Gaspare, aspettami in macchina”. E aspettavo anche per delle ore. Mi voleva bene. Sapeva di mia madre. Mentre ero in cella a Barcellona Pozzo di Gotto, ogni tanto passava con Giacomo Gambino a lasciare i soldi a casa. Mi ha confidato il suo fidanzamento, altra prova di fiducia e di considerazione. Venne a casa di Gioacchino Cascio, a Monreale, per raccontarci che una bella ragazza, giovane e intelligente, lo aveva preso come fidanzato. Era orgoglioso perché, come diceva lui, anche se non era bello, quella ragazza aveva scelto l’uomo. Ci ha detto: “Voi siete i primi a saperlo”. Ero autorizzato a seguirlo, anche se il mio capomandamento era Rosario Riccobono. Eseguivo i suoi ordini: estorsioni, rapimenti, omicidi».

L’ex intimidatore, sequestratore e killer di Cosa Nostra oggi è quest’ometto dai modi cortesi che interrompe l’ intervista per preparaci un caffè. Un metro e settanta, più o meno. Un corpo ancora solido, asciutto. Si sposta da un punto all’altro della stanza con un’agilità paradossale, nel senso che ti sembra di cogliere una certa difficoltà di movimento, quasi una zoppia, ma poi ti accorgi che quei passi sono anche veloci e lo portano in fretta a destinazione. Ha il busto leggermente piegato in avanti, come i ladri delle vignette quando camminano in punta di piedi. Sembra pronto a scappare. Il volto è molto più maschera di quella bianca. Una maschera di legno, una corteccia d’albero scavata da emozioni potenti: per 30 anni in carcere o latitante, per i 30 successivi senza nome e senza faccia. Con la vita comunque in bilico su un filo. Le due rughe più profonde scendono ai lati del naso e della bocca, quasi il letto di due fiumi di lacrime. Non ha più i baffoni e i capelli scuri, folti, che lo caratterizzavano da ragazzo, solo sopracciglia spesse, due cespugli incolti. Le palpebre da pugile, abbassate, e le occhiaie marcate hanno ricavato una grotta per le pupille che si sono rintanate come lupi. Brillano quando sorride, ma ancora di più quando parla della moglie perché si inumidiscono. I cordoni delle vene che le attraversano danno ancora più forza a mani spesse e rugose che diventano sorprendentemente gentili davanti alla tela, quando il pennello si posa nell’incavo tra il pollice e l’indice. Tipo un orso che balla.

Poco dopo l’affiliazione a Cosa Nostra, nel 1975, lei viene coinvolto nell’omicidio dell’agente di Polizia Gaetano Cappiello, 29 anni. «Nell’omicidio no. Io mettevo una bomba ogni tanto per convincere Angelo Randazzo, imprenditore nell’ottica, a pagarci cento milioni di pizzo. Alla fine si convince. Fissiamo l’appuntamento per la consegna, ma dieci minuti prima sposto il luogo in modo che la Polizia non faccia in tempo a organizzare una nuova trappola. Infatti Randazzo rimanda tutto. E questo succede più volte. Mi viene un attacco d’ernia del disco. Mi ricoverano a Villa Serena e mi operano. La mattina dopo vengono a trovarmi in clinica Riccobono, Davì e Micalizzi. Mi dicono: “Stasera finalmente ci portano i soldi”. Li metto in guardia, ma loro: “Non ti preoccupare. Pagano. Tu stai tranquillo”. Gli danno appuntamento in una chiesa del Villaggio Ruffini, a Palermo. Micalizzi e Davì vanno incontro a Randazzo che ha la borsa dei soldi, ma dall’auto spunta l’agente Cappiello armato: “Fermi!”. Gli sparano, muore, a Randazzo arriva un proiettile in bocca che gli fa saltare 7 denti, ma si salva. Dal furgone di una lavanderia spuntano 15 poliziotti, altri sparano da dietro il muro di un pollaio. Scoppia l’inferno. I mafiosi riescono a scappare. Io chiedo a mia moglie di comprare 100 rose e di offrirle alla suora per la Madonna della clinica. L’ernia mi ha salvato. Costringo i dottori a ingessarmi e fuggo prima che vengano a prendermi. Mi condannano per associazione mafiosa, non per omicidio, come invece Riccobono e Micalizzi che prendono più di 30 anni. Diventiamo tutti latitanti».

Comunque, di omicidi lei ne ha confessati una ventina eseguiti in prima persona e una settantina cui ha partecipato. «Ero un soldato. Eseguivo».

Il primo omicidio? «Gioacchino Mansueto, era stato in carcere con me ai tempi di Riina. Una vendetta. Lavorava in una fabbrica di piastrelle. Lo abbiamo seguito: io, Salvatore Lo Piccolo e Lino Spatola. Quando è sceso dall’auto per farsi aprire il cancello, ho sparato».

Aveva ragione Riina? Uccidere è più facile che rubare? «È facile con la pistola. Con l’arma bianca no. Ho provato una volta. Non potevamo sparare, eravamo in un ufficio. Abbiamo finto una rapina, disarmato le guardie, fatto sdraiare l’impiegato, e, mentre il mafioso apriva la cassaforte, l’ho pugnalato. Il sangue è schizzato dappertutto. Mi ha fatto impressione».

Anche strangolare, immagino. «Di regola bisognava essere in tre per strangolare un uomo. Due lo tenevano fermo ai lati, il terzo usava la cordicella. Una volta siamo riusciti a strangolarne due in tre, ma abbiamo dovuto lottare molto. Uno teneva a tiro il primo con la pistola, gli altri due strangolavano il secondo. Poi in tre abbiamo finito il lavoro».

Per liberarvi dei corpi? «Non si usava ancora l’acido. Si scavavano delle fosse, si gettava uno strato di calce sotto il corpo, poi un altro strato sopra e la terra. Ogni due o tre giorni passavamo a gettare acqua che penetrava, così la calce mangiava la carne e, anche se ritrovavano il corpo, non era riconoscibile».

Anni Settanta: la stagione dei rapimenti. Tra gli altri, dovevate sequestrare Silvio Berlusconi. «Siamo partiti in una ventina da Palermo. Abbiamo alloggiato dai mafiosi che avevano magazzini o esercizi commerciali a Milano: i Di Maggio, i Maio, i Filippone. Se il locale aveva una cantina tenevamo il sequestrato lì, alla catena. Se il negozio era al piano terra, creavamo un separé con la brandina. Avevamo già sequestrato un imprenditore del formaggio di Lodi, Emilio Baroni. Mi chiamava il Buono, diceva che quando sentiva la mia voce si tranquillizzava. Io gli mostravo la pistola e lo minacciavo: “Se provi a scappare ti sparo”. Ma gli raccontavo di suo padre che si stava dando da fare per raccogliere i soldi del riscatto, gli parlavo e lo assicuravo che tutto sarebbe finito bene. Avevamo nel mirino anche il presidente della IP Petroli».

Avete rapito anche l’industriale Luigi Rossi di Montelera? «No, quello è stato un lavoro di Luciano Liggio e dei fratelli Taormina. L’ostaggio era un ragazzo, pretendeva di cenare a champagne. I carcerieri lo hanno riferito a Liggio che gliel’ha concesso, poi ha aggiunto un milione di lire al riscatto: gli ha fatto pagare lo champagne».

Berlusconi? «I nostri basisti di Milano avevano già studiato il piano. Sapevamo che ogni otto o nove giorni Berlusconi andava nei suoi uffici di Milano 2. Lo aspettavamo lì. Era già tutto pronto, le auto, il magazzino dove rinchiuderlo. Ma lui non arrivava. Pensammo che qualcuno lo avesse avvertito. Poi ci arrivò una telefonata da Palermo che ci ordinava di smontare tutto e rientrare in Sicilia. Pochi giorni dopo, nella villa di Berlusconi, ad Arcore, arrivò da Palermo Vittorio Mangano, assunto come stalliere. Pensi che una volta mi ha quasi fatto arrestare».

Cioè? «A Partanna Mondello, in un grande piazzale recintato, protetto da una guardia, c’erano quelli che noi chiamavamo i frigoriferi. Locali dove si conservavano prosciutti, salami, arance. Quell’azienda non pagava ancora il pizzo, per cui dovevamo procurargli qualche danno per convincerli a farlo. Una notte arrivammo con due macchine, io, Micalizzi, Mangano e Cancemi. A Mangano, che era sempre malaticcio e aveva le vene varicose, assegnammo il compito più facile, quello di attaccare la guardia, cioè di immobilizzarla. Noi svolgemmo la pratica. Poi Mangano propose: “Perché non ci prendiamo uno di questi camion e lo riempiamo di prosciutti e di tutto questo ben di Dio per mangiarceli noi?”. Così facemmo. Io e Micalizzi ce ne andammo con una macchina, Mangano con la seconda auto e Cancemi con il furgone pieno di roba. Appena siamo partiti, la guardia si è liberata perché Mangano lo aveva legato male e ha chiamato i Carabinieri. Cancemi è stato fermato nella rotonda dove hanno arrestato Riina e si è fatto più di quattro anni dentro. Per dire un lavoro alla carlona, noi dicevamo un lavoro “alla Mangano”».

Mangano ad Arcore marcava il territorio? «Non c’erano solo i siciliani a fare sequestri. C’erano i sardi, i calabresi e c’era Francis Turatello, il più spietato di tutti, che faceva i sequestri lampo. Ci siamo conosciuti a Palermo. Sequestrava un industriale e gli diceva: “Ora ti rilascio e tu torni tra qualche giorno con i soldi, altrimenti ti vengo a riprendere”. E quelli tornavano con i soldi. C’è stato un periodo, a Milano, in cui c’erano in corso contemporaneamente una trentina di sequestri».

Siamo a metà degli anni Settanta, quando il traffico di droga diventa sempre più importante, anche per Cosa Nostra. E anche per lei. L’uomo chiave è Koh Bak Kin, che anni dopo si pentirà come lei. «L’ho conosciuto in carcere a Sulmona, verso il ’78-’79. Me ne parlò un ragazzo di Bologna, un certo Arena. Ricordo che mi disse: “I cinesi sono tutti trafficanti di droga. Guarda quello lì, bassino. Lo hanno arrestato perché aveva in una valigia 30 chili di droga e non sapeva a chi venderla. Sembra Sandokan”. Me lo presentò e sono andato nella sua cella che era piena di cinesi. Mi raccontò che faceva il cuoco sulle navi, ma che il suo vero lavoro era quello di trafficare droga. Vedevo che era sempre vestito allo stesso modo, come se stesse fuori, allora ho chiesto a mia moglie di portarmi un pacco con tute e scarpe da tennis, roba comoda, e gliel’ho regalata. Abbiamo fatto amicizia. Mi affascina va perché disegnava molto bene. Dipingeva soprattutto quadri di donne sdraiate a letto e avvolte da veli. Non era pornografia, erano veri nudi d’arte».

E com’è entrato nel giro della droga? «Una volta sono stato a Palermo per un processino e ho avuto i primi contatti con il boss Giuseppe Savoca che trafficava droga con il Nord America, traffici che sono finiti poi nell’inchiesta “Pizza Connection”. Gli americani acquistavano anche in Sicilia, ma preferivano rifornirsi direttamente in Asia, dove c’era la materia prima. Koh Bak Kin acquistava la droga direttamente nelle campagne thailandesi, dove la coltivavano come noi coltiviamo il frumento e la spediva a Palermo. Mi avvisava con dei segnali in codice. Arrivava in vasi e valigie che finti turisti cinesi lasciavano in qualche deposito bagagli, a Napoli, Roma o Firenze. Mi davano dei biglietti che consegnavo a gente di fiducia. Andavano a ritirarla e la portavano a Palermo. Io la rivendevo. Si stupivano tutti dei miei traffici, perché in genere, dopo le tante fregature subite, i cinesi non si fidavano degli italiani, ma io mi ero guadagnato la fiducia del pittore di Singapore. Quando è uscito dal carcere di Sulmona, prima di me, gli ho regalato un orologio d’oro, una collana di diamanti e un bracciale. Non avevo soldi da passargli. Gli ho dato dei bigliettini e l’ho indirizzato a Napoli da Michele Zaza, boss della Camorra. Quando l’ho rivisto, aveva ancora la mia collana al collo. Mi ha detto: “Questa non la rivendo. È il ricordo di un amico”. Si era affezionato a me. Spediva la roba, poi scendeva in Italia, saldavo il conto e rivendevo. Se lo ricorda l’Uomo Plasmon?».

Quello che tirava la martellata a torso nudo nello spot di Carosello? «Lui. Si chiama Fioravante Palestini. Lo coinvolsi nel traffico di droga. Comprava anche lui da Koh Bak Kin e rivendeva. L’hanno arrestato mentre attraversava il Canale di Suez con 250 kg di droga. Si è fatto 20 anni di carcere duro. Quando è uscito, una giornalista ha cercato di mettermelo contro: “Se non era per Mutolo, sarebbe andata in modo diverso”. L’Uomo Plasmon ha risposto: “Cosa c’entra Mutolo? Non ero un ragazzino. Quello era un lavoro e conoscevo i rischi che correvo”. Fioravante ha dormito spesso a casa mia, aveva una stanza tutta per sé. Ha proseguito l’attività anche per me, quando mi hanno arrestato nell’82. Era l’unico uomo che mia moglie faceva entrare quando bussava alla porta. Ma nell’83 hanno arrestato anche lui. Uscito dal carcere, gli hanno dato da gestire una pompa di benzina nel porto di Giulianova, sua città natale. Una volta ci è arrivato su un pattino partito da Sebenico, in Croazia, remando per oltre 30 ore. Era il 2009. Nel 2017 ha rifatto l’impresa, a 71 anni, migliorando di tre ore il suo record».

Le cronache le attribuiscono palazzi, società, terreni presso la discesa di Valdesi a Mondello, una Ferrari. Il periodo della massima ricchezza? «Sì. Senza toccarla, senza guardarla, davo la droga a Giuseppe Savoca, compare di Salvatore Riina, e guadagnavo 20 milioni al chilo. Mi chiedevano tutti: “Ma perché non la apri e da un chilo non ne fai due, da dieci chili non ne fai venti e raddoppi anche i milioni?”. Perché mi bastavano i tanti che facevo e non volevo sporcarmi le mani. Ero diventato un costruttore».

Ma nel 1982 succede l’Apocalisse. A giugno, la sera stessa della Strage della Circonvallazione, vengo arrestato. Sono morti il boss catanese Alfio Ferlito, che stava per essere trasferito da Enna al carcere di Trapani, e tre agenti. Vengono rilasciate una trentina di persone, anche mio padre e mio fratello, mentre io vengo fermato. Giovanni Falcone è convinto che ne sappia qualcosa e spicca un mandato di cattura per associazione e traffico di droga internazionale contro di me, Tommaso Buscetta e Koh Bak Kin».

Non solo. Il 30 novembre scompare per sempre Rosario Riccobono, attirato in trappola nella tenuta di Michele Greco, strangolato e sciolto nell’acido insieme ad altri compari. Un lavoro di Riina, Brusca e famiglia.«Sparì anche Salvatore Micalizzi, che era stato testimone alle mie nozze».

Siamo in piena seconda guerra di mafia. I Corleonesi sterminano gli avversari. Riccobono era il suo capo. Non aveva paura? «Nell’82 i miei rapporti con i Corleonesi erano ancora buoni. Quando sento parlare di seconda guerra di mafia, mi viene da ridere. Non c’è stata nessuna guerra. Ci sono stati dei capi che sono stati traditi dai loro migliori amici e uccisi. Come successo a Riccobono, appunto. Non c’è stata una fazione contro l’altra, solo Riina che ha convinto tanti mafiosi a tradire gli amici per prenderne il potere. Io non l’ho fatto, anche se me lo hanno chiesto. Un giorno, nel garage di Filippo Marchese, Riina si raccomandò: “Gaspare, le cose che facciamo e che ci diciamo non dirle a Riccobono”. Gli ho spiegato: “Viviamo nella stessa casa, con le nostre famiglie. Come posso tradirlo?”. Lo avessi fatto, sarei diventato ancora più amico di Riina. Ma non ho voluto tradirlo. Anche se ero amico di Riina e gli dovevo riconoscenza».

Anche Riccobono era amico di Riina. È stato Riina a farla combinare con la famiglia di Riccobono. Cos’è cambiato? «L’ascesa di Giuseppe Giacomo Gambino, ’U tignusu, che era capo della famiglia di San Lorenzo, nel mandamento di Partanna Mondello. Era entrato in un gruppo della morte al servizio dei Corleonesi ed era ormai inseparabile da Riina. Gambino non voleva più stare sotto Riccobono, voleva lui il mandamento. Un giorno Badalamenti va a parlare a Rosario e gli spiega: “Devi scegliere, o rinunci al mandamento e ti tieni l’amicizia di Riina, o difendi il mandamento e ti trovi contro i Corleonesi”».

Riccobono ha scelto il mandamento. «Anche perché Riina ha cercato di sottrarglielo, davanti alla Commissione, con la scusa che il padre di Riccobono era stato un Carabiniere. Non era vero. Il padre di Rosario era stato un soldato durante la guerra e, in alcune operazioni in Sicilia, il suo reparto aveva appoggiato i Carabinieri. Riccobono tirò fuori tutto il suo orgoglio e mostrò carattere. Disse: “Se io perdo il mio mandamento, nessuno di voi potrà più mettere piede a Mondello. Solo pagando il biglietto!”.  Lo chiamavano il Terrorista. Ma Riina lo ha fatto sparire. Come tutta la sua famiglia».

A una belva come Riina, che ha sterminato famiglie intere, non bastava il rifiuto di tradire Riccobono per far sparire anche lei? «Continuava a volermi bene, credo, e forse apprezzava la mia lealtà. Tanti di quelli che lo hanno servito tradendo gli amici poi li ha uccisi, perché chi tradisce una volta può farlo ancora. Piano piano, le cose sono cambiate. Quando sono sceso a Palermo per il Maxiprocesso, mi sono visto con Antonio Porcelli, reggente del mandamento di Partanna Mondello sotto Gambino, che aveva preso il posto di Riccobono. Mi dice: “Riccobono doveva morire dieci anni prima”. E poi: “Asparinu, tu a Palermo non possiedi più nulla”. Gli rispondo: “Questo lo vedremo quando esco. I palazzi e le società non sono soldi. Ci sono carte e documenti che dimostrano a chi appartengono”. Avevano deciso di farmi fuori. Condorelli riceve una telefonata da Carletto Campanelli. Gli chiedono di organizzare una bella tavolata nel paese di mio nipote e di invitarmi».

Come Greco aveva invitato Riccobono: la trappola. «Infatti. Condorelli risponde: “Ma Gaspare è un bravo ragazzo…”. “Lo so – dice Campanelli -, una volta mi ha fatto anche uscire dal carcere con l’aiuto di un medico, ma dobbiamo  fare il favore a ’U tignusu”. In cella, Pino Leggio e Mariano Agate mi chiedono: “Ma è vero che, quando esci, hai intenzione di vendicare Riccobono?”. Gli domando: “Voi ci credete?”. Rispondono: “No, però Porcelli lo ha detto a Giovanni Brusca”. Cercano di mettermi contro Riina. Sono nel mirino. Ammazzano un paio di amici che frequentavano casa mia perché si erano rifiutati di tradirmi. Nel 1988 mi mandano a Gavorrano, in Toscana, in regime di allontanamento. Mi organizzo un gruppo di difesa, ragazzi fidati, nascondo mitra e pistole in una miniera abbandonata, ma presto rientro in prigione perché mi trovano con un milione di dollari falsi. In carcere è più difficile proteggersi. Ormai penso sempre più spesso all’idea di pentirmi e collaborare con la giustizia».

Per proteggersi e proteggere la famiglia, come Buscetta? Proprio nell’88 i Corleonesi uccidono Giovanni Bontade mentre fa colazione con la moglie Francesca in casa, nella Borgata di Villagrazia. Lei ha una vestaglia blu, muore in cucina per mano del luogotenente del marito. «Uccidono anche i figli di Pino Civiletti, di Nino Badalamenti e di Salvatore Inzerillo. Hanno dai 14 ai 16 anni, l’età dei miei figli grandi, più o meno. Civiletti è consigliere della nostra famiglia. Ha pranzato spesso da noi con il figlio. Mia moglie è sconvolta. Ma non è solo per proteggere la mia famiglia che penso continuamente alla collaborazione. Io ho ucciso e fatto soffrire tanto, lo so, la mafia è il male, ma quella per cui avevo giurato non esisteva più. Era diventata un’altra cosa. La mafia imposta da Totò Riina vedeva solo droga, soldi e potere, uccideva donne e bambini, chiedeva agli amici di tradire gli amici e di scioglierli in un barile di acido»

La sua mafia era davvero tanto diversa? Quanti scrupoli avevate? La mafia buona è una favola. «Ascolti. Mi combinano nel 1973, come le ho raccontato. Domina ancora il triumvirato Bontade, Liggio, Badalamenti. Si diceva: Dio in cielo, loro in terra. Avevano potere di vita o di morte sulle persone. Decidono di imporre la famiglia Riccobono. Bisogna farle spazio, eliminare Vincenzo Nuvoletti, capomandamento di Pallavicino e Partanna Mondello. Gli sparano mentre sta in una stalla con il suo braccio destro. Si salvano miracolosamente. Nuvoletti si fa medicare in ospedale, ma scappa per paura di essere raggiunto dai sicari. Dobbiamo ucciderlo noi. Gli facciamo avere un messaggio: “Se ti presenti tra due giorni al bar di Pallavicino, ai tuoi due figli non succederà nulla e la storia finisce qui”. “Presentarsi” voleva dire “farsi uccidere”. Due giorni dopo si presenta. Io, Micalizzi e Riccobono siamo in auto davanti al bar con le scopette in pugno, le pistole. Ci guardiamo e nessuno dei tre ha il coraggio di sparare a quel vecchio che, con il collo fasciato per le ferite, è venuto zoppicando a farsi ammazzare per salvare i figli. Gli diciamo di non immischiarsi mai più in faccende di mafia, di non chiedere più tangenti, di ritirarsi e non avrebbe avuto problemi. Non dico che eravamo santi, ma quella mafia, anche se era il male, aveva dei valori. Non sparava alle donne, non strangolava i bambini. A quella mafia io credevo. Potrei raccontarle centinaia di storie del genere. Sequestrano una certa Rossella Mandalà, a Monreale. Per la legge della mafia, chi rapisce persone in Sicilia deve essere ucciso. Io infatti i rapimenti li facevo a Milano. A fare la guardia all’ostaggio c’è una donna. Quando la Mandalà viene liberata, Gaetano Badalamenti dice subito: “Per noi le donne e i bambini sono sacri. Ma se qualcuno vuole ucciderla, in base alla legge della mafia, può farlo”. Nessuno ha avuto il coraggio. C’era un certo Umberto che rubava le autoradio a Mondello, senza badare di chi fossero le macchine. Una volta scelse quella sbagliata. Mi chiamò Riccobono, erano le otto di sera. “Vai con Totuccio Lo Piccolo ad ammazzare quel delinquente”. Io sapevo che la moglie di quel ragazzo era incinta. Glielo dissi, ma non ne volle sapere: “L’ho avvertito cinquanta volte. Non ha voluto capire. Ora basta”. Provai ad insistere. “Zu Saro, lasciami provare un’ultima volta”. Andai con Lo Piccolo a comprare cinque litri di benzina, raggiungemmo Cardillo, dove abitava il ladro, e la versammo sulla sua auto. Umberto stava cenando in veranda e si mette a urlare. Accendo un cerino e la macchina prende fuoco. Telefono alla moglie e le dico: “Prendi tuo marito e lasciate Palermo. Spiegagli che gli ho salvato la vita”. Qualche anno fa, mio fratello che vive a Milano mi ha telefonato i saluti di Umberto che è diventato un costruttore affermato. Eravamo così. La mafia era il nostro lavoro. Io spesso diventavo amico di chi ci pagava il pizzo. Per esempio, c’era un imprenditore che aveva molte cristallerie a Palermo e il deposito a Partanna. Mi ha regalato un servizio di bicchieri Imperatore che per usarli tutti ci voleva un tavolo da film. Mentre ero in galera portava regali a mia moglie. Con Totò Riina, la mafia ha perso regole, freni e valori. Per questo mi viene il voltastomaco quando sento parlare di guerre di mafia. Ma se io vengo a pranzo da te e tu mi strangoli e mi sciogli nell’acido, è una guerra questa? Ci sono fratelli che uccidono sorelle o cognati, padri che fanno ammazzare i figli. Ci sono tenute di campagna con vasche d’acido che sono campi di sterminio. Ma quale guerra di mafia? Agli occhi di Totò Riina, chi faceva le cose più terribili acquisiva i meriti più grandi. Si era persa anche l’ultima briciola di umanità».

L’importanza di Giovanni Falcone nel suo pentimento. «Conoscevo il dottor Falcone da tempo. Il primo mandato di cattura me lo ha spedito nel 1982, dopo la strage di Ferlito. Poi gli altri. In tutto sei mandati, che sono confluiti nel Maxiprocesso. Ogni volta che mi interrogava, io facevo il finto tonto: “Mi chiamo Mutolo Gaspare, 5-2-1940, mi dichiaro innocente”. Lui sorrideva e scriveva. Accadde che mio cognato, il fratello di mia moglie, si è dichiarato pentito e ha fatto arrestare nomi importanti, mafiosi e no. Lo ha fatto perché avevano arrestato suo figlio che non aveva ancora 19 anni. Falcone lo ha ascoltato, ha fatto uscire il figlio e ha mandato mia sorella e suo marito in una città del nord Italia. Io ero in carcere a Trapani, mi portavano a Palermo quando decidevo di assistere in aula al Maxiprocesso. Un giorno Giuseppe Liggio e Pippo Calò mi vengono a dire: “Senti Gaspare, sappiamo che tuo cognato è in questa città del Nord. Te lo diciamo perché ti rispettiamo. Dì a tua sorella di convincerlo a ritrattare. È meglio per tutti”. Li ringrazio. Invece di avvisarmi, avrebbero potuto uccidere tutti. Vado a Palermo e chiedo di parlare con Falcone. “Dottore, nel suo ufficio c’è qualcuno che parla troppo. Come fanno i mafiosi a sapere dove stanno mia sorella e mio cognato?”. Rimase sorpreso, seccato. Fece subito cambiare domicilio a mia sorella e suo marito. Prima ancora di collaborare, avevo già un buon rapporto con Falcone».

Lei ha detto: «Non fossi rimasto affascinato da Falcone, non avrei collaborato». Cosa l’affascinava? «Le faccio un esempio. Nel 1983 il procuratore Pier Luigi Vigna trova 80 chili di droga in una fabbrica di Firenze in partenza per gli Stati Uniti, nascosta in scatole di scarpe. Risale a Tommaso Spadaro».

Il re della Kalsa che leggeva Gandhi e si proclamava “l’Agnelli” di Palermo. «Vigna, il giorno stesso, fa arrestare tutti quelli che passano dalla casa di Spadaro a Palermo: uomini, donne, parenti… Falcone non ha mai fatto una cosa del genere, anche se intercettava telefonate di Koh Bak Kin o altri e rispondevano mia moglie, mia suocera o mio nipote. Sapeva che il delinquente ero io e non arrestava i miei parenti. Non era vendicativo. Io questa nobiltà d’animo gliela riconoscevo. Quando parlavo con Provenzano, mi ripeteva sempre: “Gaspare, questo Falcone è intelligentissimo. È un pericolo”. Non mi diceva: “È un cornuto”. Falcone era troppo intelligente e vedeva le cose nascoste, sembrava che avesse la sfera di cristallo. Per questo l’hanno fatto fuori, non solo i mafiosi, ma anche i colletti bianchi che sono più pericolosi dei mafiosi. L’hanno fatto fuori perché non guardava in faccia a nessuno. Purtroppo tanti non lo accettavano, perché c’era una collusione diffusa. Nel Maxiprocesso che ha fatto Giovanni Falcone, con tanti magistrati che hanno rischiato la vita, non c’è stato un solo magistrato di ruolo che abbia voluto presiederlo. Lo ha fatto Alfonso Giordano, ma veniva dalla sezione civile. Gli altri avevano tutti paura. Quando noi vediamo che il presidente del Maxiprocesso lo fa Giordano ci mettiamo a ridere… Una bella soddisfazione per i mafiosi che hanno messo tanta paura. Questa era la Palermo degli anni Ottanta. Con la maggior parte dei politici succubi dei mafiosi e Riina che terrorizzava tutti: basta, non perdo più tempo, o fanno così o li ammazzo».

Quando ha comunicato a Falcone l’intenzione di collaborare? «Nell’agosto del 1991. È venuto trovarmi nel carcere di Spoleto. Avevo chiesto di parlargli. Stavo per essere trasferito in una clinica di Pisa perché mi ero finto paralitico. In carcere ne ho sempre combinate tante. Bastava non lavarsi, camminare scalzi, ingoiare chiodi, tagliarsi un po’, arrampicarsi sui cornicioni o cose del genere per fingersi pazzi e farsi ricoverare da qualche parte. Un ospedale è sempre meglio di una cella. Quella volta avevo una base scientifica. Un professore mi aveva spiegato che da un’ernia può fuoriuscire un liquido invisibile che paralizza il corpo. Mi hanno fatto tutti i tipi di esami, anche con dolorose sonde anali. Li sentivo discutere tra loro: “Eppure i muscoli non sono atrofizzati”. Alla fine, sono arrivati anche loro all’ipotesi dell’ernia. Mi hanno messo su una sedia a rotelle, in attesa di fare analisi più approfondite a Pisa. È arrivato il dottor Falcone».

Fine prima puntata. La seconda parte è su Oggi in edicola dal 21 aprile

E senza bisogno di grandi processi e stupide discussioni basti vedere chi sta praticando lo svilimento del 41bis e si oppone perfino all’ergastolo ostativo tirando in ballo la fasulla dignità umana. Con certi feroci criminali si deve parlare di dignità umana? Già le nostre carceri sono alberghi a cinque stelle nei quali i criminali fanno miglior vita dei cittadini onesti ridotti in miseria; già i numerosi benefici vanificano ogni pena, ora si vuole anche eliminare l’ergastolo. Una vera ulteriore ingiustizia per i cittadini onesti e le vittime dei criminali.

La vera giustizia sarebbe quella di sbattere in galera a vita i politici fiancheggiatori dei mafiosi e che invece non si possono nemmeno nominare.

Addio a Lucia Zagaria, moglie di Lino Banfi. Aveva 85 anni

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