Da Django a Godless, il western ha rialzato la testa - L'Espresso

2023-02-22 18:20:19 By : Mr. Kevin Yang

Dei banditi assaltano un treno. Uccidono l’addetto al convoglio postale e il fuochista, fanno esplodere la cassetta dei valori, staccano il locomotore, derubano i passeggeri, ne trucidano uno che tenta la fuga. Inseguiti dallo sceriffo ed i suoi, cadono uno dopo l’altro. Giustizia è fatta. Non proprio: con nostra sorpresa uno di loro appare sullo schermo e spara sul pubblico. Si tratta del celebre gunshot de “La grande rapina al treno” (1903) di Edwin Porter, convenzionalmente indicato come “il primo western” della storia. In realtà non lo è affatto, anzi è il portato di esperienze grafiche, visive, letterarie (“pulp magazine”, “dime novel”, racconti di viaggio) e di momenti performativi (i “Wild West Show”) precedenti, ma questo film rappresenta l’emblema del mito popolare per eccellenza della storia americana: il far west.

Il racconto dell’epopea nazionale americana inizia con l’immagine emblematica di una canaglia, che Martin Scorsese riproporrà in “Goodfellas”, mettendo al posto del bandito Barnes Joe Pesci, ma il western si affermerà rapidamente, entusiasmando il pubblico con eroi senza macchia e senza paura, che portano alla vittoria il Bene sul Male e contribuiscono alla costruzione della nazione. Nel secondo dopoguerra gli eroi diventeranno più tormentati, interrogandosi su loro stessi, il loro ruolo, la loro posizione nell’universo che hanno contribuito a creare e di cui cercano di conservare o ripristinare l’ordine. Negli anni Cinquanta, pur restando nel giusto, su di loro pesano inquietudini, traumi, dissidi e la difficile scelta tra imperativo morale e disposizione personale, dovere e volontà. È negli anni Sessanta che entrano in un cono d’ombra e dalle maglie strappate della loro originaria integrità emergono pistoleri senza nome, canaglie, giocatori d’azzardo, ladri, assassini, vendicatori di poche parole. Il western all’italiana conquista il pubblico e dona nuova vitalità al genere. Il coraggio diventa astuzia, il sorriso ghigno, la fierezza mediocrità, la violenza sadica esercizio istintivo, mentre resta immutata, anzi acquista nuovo dinamismo, l’abilità con le armi. I valori si polverizzano in un universo in cui regnano disordine e casualità, mentre emergono le imposture dei miti del West. Sergio Leone, dalla “Trilogia del dollaro” a “C’era una volta il West” (1968), prende il genere e ne fa un oggetto estetico da decostruire, maneggiare sul piano dell’espressività e della sensorialità. Sam Peckinpah, recuperando la tradizione storica e declinando il western in funzione antimitologica, realistica, brutale, lascia esplodere il potenziale di distruzione di cui sono capaci gli uomini e la violenza parossistica ne “Il mucchio selvaggio” (1969). Le canaglie del cinema primitivo si riappropriano dello spazio filmico. Le categorie etiche del cinema classico americano risultano per sempre ribaltate o polverizzate. I personaggi esprimono una continua tensione verso la violenza e i “cattivi”, è noto, sono più interessanti dei buoni. E vanno forte nella serialità lunga.

Basti pensare alla varia umanità di ubriachi, drogati, giocatori d’azzardo, prostitute e boscaioli degli abitanti di Deadwood - la città dell’omonima serie del 2004 - coro di outsider, che maneggiano i loro affari sporchi e le loro vite scellerate tra tradimenti, vendette, sadismo, anarchia, multirazzialità, parolacce e sangue, prima che l’illegalità iniziale si commuti in società funzionante. O al moderno sceriffo della serie “Justified” (2010), cappello calato sugli occhi, stivali da cowboy e pistola semiautomatica austriaca Glock 17, che avverte sempre prima di sparare, ma se spara è per uccidere. O ancora al cacciatore di taglie della serie “That Dirty Black Bag” (2022), ideata da Mauro Aragoni e Brian O’Malley, che si porta dietro un sacco di teste mozzate in decomposizione, perché «una testa pesa meno di un corpo».

Al cinema il western era dato per morto con “Gli spietati” (1993), ma non è andata così. Clint Eastwood, con una robustezza vecchio stile, ha smontato definitivamente i cliché eroici ed ha percorso fino in fondo la strada di “Sfida nell’Alta Sierra”, mettendo in scena protagonisti anziani e male in arnese. I fratelli Coen hanno realizzato film western, in cui l’apparente adesione a personaggi e situazioni convenzionali comunicano in chiave comico-grottesca la casualità della vita e una evidente intenzionalità parodistica di demistificazione dei ruoli (da “Non è un paese per vecchi”, del 2007, a “La Ballata di Buster Scruggs” del 2018). Quentin Tarantino ha portato alle estreme conseguenze l’estetica di Leone e Peckinpah, mescolando abilmente vendetta, riscatto, violenza e spregiudicatezza con padronanza della superficie e dello stile, utilizzando ora un personaggio di Sergio Corbucci che lotta per amore tra le piantagioni di cotone dell’America prima della secessione in “Django Unchained” (2012), ora un branco di canaglie immobilizzate in un claustrofobico teatro dell’eccesso in “Hateful Eight” (2015).

Alejandro Iñárritu ha assegnato al suo eroe, cacciatore di pellicce ed uomo di frontiera, la maschera di un guerriero di carne e ossa immerso in una sfida epica alla wilderness, che è lotta per la sopravvivenza e desiderio di vendetta in “Revenant” (2015). Lee Jones in “Le tre sepolture” (2005) ha trasformato una storia di confine tra Usa e Messico in una macabra ballata picaresca, in cui la promessa di una sepoltura diventa ricerca di se stessi, come già nella serie western “Lonesome Dove” (1989).

Film come “The Assassination of Jesse James by the Coward” di Robert Ford (2007) hanno dato l’abbrivio ad un western-intimista, splendido nella fotografia pittorica, in cui si insediano ritratti di nature morte (sedie, lampade o recinzioni) a volte presentati con la distorsione e la messa a fuoco selettiva. Jane Champion ne “Il potere del cane” (2021) firma un queer western indimenticabile, magnifico nell’orizzonte visivo, potente nella struttura, affrontando in modo contemporaneo la mascolinità tossica e la famiglia disfunzionale. E presto vedremo cosa ci regalerà Walter Hill con “Dead for a dollar”, uscita prevista a marzo, protagonista Christopher Waltz.

Il western continua le sue storie di antiche colpe, traumi, redenzioni; di leggende superiori alla realtà; di solidarietà maschile, istinto paterno, dignità personale, ma si alimenta anche di pulsioni violente, che obbligano all’azione; tradimenti; sete di vendetta, sangue, perdite e lutti. Conferma il suo inconfondibile corredo iconografico di taglie allettanti, cacce all’uomo e agguati; saloon e duelli; cespugli e polvere; fruscii di bestiame e cavalli frementi; fuochi nella notte e ranch lontani; geometrie di duelli e pallottole dalle traiettorie invisibili, che forzano i limiti del quadro. Conserva codici, stilemi, sintassi del cinema classico, ma anche colpi di scena, visual gag, accumulazione di dettagli, realismo di indumenti e corpi (pelosi, unti, maleodoranti) tipici del western italiano. Fuori da ogni sistemazione tassonomica, è un luogo di contaminazioni, di negoziazione tra tensioni culturali diverse, di connessioni tra produzione cinematografica, pubblico e critica.

Non può sottrarsi alle ibridazioni, come già mostrava Takashi Miike nel 2007, in “Sukiyaky Western Django”, mescolando la tradizione del cinema dei samurai giapponese (da Akira Kurosawa a Hideo Gosha) con il western italiano (Leone e Corbucci in primis) e la drammaturgia di Shakespeare. Qualche esempio: “Bone Tomahawk” (2015), western-horror macabro e violento firmato da S. Craig Zahler, che segue le vicende di un gruppo di esploratori alla ricerca di una tribù indigena dedita al cannibalismo, è una rilettura raccapricciante, ma non banale, di “The Searchers” di John Ford. “Hostiles” (2017), western-odissea, in cui la violenza del pioniere bianco e quella del nativo americano sono messe l’una contro l’altra in una tragica equivalenza, è vicino ai dilemmi morali di Eastwood. “The Harder They Fall” (2021) di Jeymes Samuel, cinetico sgargiante western-drama interpretato da attori di colore (i bianchi appaiono poco e fanno una pessima figura, quando non sono crivellati di colpi), recupera il lato afroamericano spesso cancellato dal genere con un’estetica debitrice a Tarantino e gli spaghetti western. “The Last Son” (2021), western-thriller, in cui un novello Crono psicopatico, con barba cespugliosa, va in giro nella neve a sterminare i suoi figli in virtù di una profezia, si svolge all’interno di una messa in scena che ricorda “I compari” di Robert Altman.

Ma è nella serialità lunga che il western oggi gode di ampio successo e grande qualità. Simile a un archivio culturale, il genere diventa un paradigma di riferimento, su cui ritagliare frammenti narrativi ed elementi significativi già insediati nell’immaginario collettivo. Il racconto con più linee narrative parallele li assembla liberamente ad uso e consumo di un pubblico vasto e eterogeneo, innestandoli nelle vicende dei personaggi e reinterpretandoli attraverso la lente delle contraddizioni e i discorsi dell’oggi. Ed ecco che la messa in discussione del machismo, l’omosessualità, gli amori saffici, il power female, le relazioni razziali, l’intolleranza, l’essere dentro/fuori la natura si fanno strada.

Non prendiamo ad esempio quella saga familiare un po’ “Dallas” (1978-1991) un po’ “Il Gigante di Yellowstone”, ma la serie “Godless”, ideata da Scott Frank e Steven Soderbergh. Questo racconto della resistenza di alcune donne sole di fronte a dei banditi feroci, guidati da un criminale, fanatico della parola di Dio, è una bella rilettura in chiave femminista del western, esemplare per classicità, ritmica, cura per i dettagli e forza implicita della denuncia sociale.

Insomma il western dato ormai sul viale del tramonto se non proprio per spacciato, almeno da queste parti e visto anche l’arrivo di “Django” di Francesca Comencini, sembra avere un luminoso avvenire.

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